La nostra azienda..

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La nostra esperienza deriva dal lavoro quotidiano di 36 anni. Per noi il fine non è mai il denaro, ma produrre il miglior prodotto rispettando l'ambiente. Il collante più importante in famiglia non è il denaro, ma il rispetto e gi affetti per ognuno dei componenti.

giovedì 21 agosto 2014

E' tempo di nocciole

E’ tempo di nocciole. Questo aneddoto l’ho “sbrocchiolato” un paio di giorni fa.
(perdonatemi la lingua italiana) scrive Sergio Giustozzi e con sua concessione pubblico.


La “tuttata”
La “tuttata”, termine usato dai miei genitori e da nostri amici di Corchiano, indicava un modo specifico di affrontare/organizzare un lavoro nell’arco di tempo più breve possibile, di solito un giorno. A papà capitava di farla specialmente per la raccolta delle nocciole perché dovevamo poi partire per esigenze scolastiche per Roma, tant’è che le raccoglievano e le vendevamo verdi (cioè colte dall’albero, con tutto il “brocchiolo”) senza farle essiccare noi.
Le consegnavamo a “Giovanni il caciotto”, un carissimo amico di papà che era “del mestiere” e che le vendeva a un tizio di Caprarola o le “lavorava” aspettando qualche giorno per avere il prezzo migliore.
Il giorno della “tuttata” che per noi era organizzata sempre di domenica per non distogliere dalle proprie occupazioni i partecipanti, a casa nostra era una festa. Venivano le famiglie dei nostri vicini Cencio e il compare Ofelio, diversi cugini di papà, zio Elio, zio Miretto, zio Antonio il palettone, e un po’ di “opere” (contadini braccianti) che partecipavano <giusto perché si tu, Giova’>.
Il mattino, appena all’alba, si presentavano tutti a casa e si procedeva alla vestizione:
la tenuta di lavoro consisteva in abito personale comodo e una grande tasca ottenuta legando alla cinta le due estremità basse di una parannanzi. Questa legatura era mobile perché, scioltala, permetteva lo svuotamento del suo contenuto in grosse ceste, dalle quali poi si riempivano le balle. Venivano approntati anche dei lunghi bastoni ad uncino per tirare in basso i rami più lunghi ed un paio di scale in legno per le piante più “rognose”.
Naturalmente i lavori più complessi, uncinare e tirare i rami o salire sulla scala, spettavano di diritto agli uomini. Le donne e i giovani facevano la bassa manovalanza.
Papà mi fece notare, però, più volte, come le “signore” in questo lavoro fossero molto più svelte e produttive dei maschietti.
Io e le mie sorelle, Marco era piccolino, cercavamo di imitare i “lavoratori” ma il più delle volte eravamo loro solo di intralcio, così venivamo incaricati di mansioni più semplici come mantenere costante la riserva di acqua per dissetarci e qualche bottiglia di vino per gli uomini più “rudi”.
Si andava avanti così, senza interruzioni del lavoro ma accompagnando lo stesso con canti di gruppo o con sfottò, fino all’ora di pranzo.
Poi l’intervallo pranzo.
Nonostante tutti fossero forniti dell’occorrente per il proprio pasto mamma preparava sempre un “filo de pasta calda calda” col sugo di “regagli” di pollo.
Per tavolo, oltre a quello in cemento delle “cerquette”, papà preparava due palanche poggiate su “bigonzi” rovesciati e altre due poggiate su cortine di tufo come sedili.
Un’oretta e mezza circa per pranzare ma anche per scherzare, raccontare aneddoti, cantare, e se c’era zio Antonio con la fisarmonica ascoltare un po’ di musica, qualcuno approfittava per un breve sonnellino.
E si riprendeva fino al calar del sole. Di solito finivamo tutto in giornata, ma comunque per ultime venivano lasciate le piante del “fonnetto” davanti casa che, più piccole e comode erano “lavorate” il giorno dopo, “co’mpard’ora” da Carolina e la comare Valda.
Nell’arco di un paio di giorni Cencio o il compare Ofelio passavano col carretto, caricavano tutto e lo portavano a “Giovanni il caciotto” che aveva dei magazzini per la raccolta e una prima lavorazione davanti alla Chiesa Parrocchiale. 

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