E’ tempo di nocciole. Questo aneddoto l’ho “sbrocchiolato” un paio di giorni fa.
(perdonatemi la lingua italiana) scrive Sergio Giustozzi e con sua concessione pubblico.
La “tuttata”
La “tuttata”, termine usato dai miei genitori e da nostri amici di Corchiano, indicava un modo specifico di affrontare/organizzare
un lavoro nell’arco di tempo più breve possibile, di solito un giorno. A
papà capitava di farla specialmente per la raccolta delle nocciole
perché dovevamo poi partire per esigenze scolastiche per Roma, tant’è
che le raccoglievano e le vendevamo verdi (cioè colte dall’albero, con
tutto il “brocchiolo”) senza farle essiccare noi.
Le consegnavamo a
“Giovanni il caciotto”, un carissimo amico di papà che era “del
mestiere” e che le vendeva a un tizio di Caprarola o le “lavorava”
aspettando qualche giorno per avere il prezzo migliore.
Il giorno
della “tuttata” che per noi era organizzata sempre di domenica per non
distogliere dalle proprie occupazioni i partecipanti, a casa nostra era
una festa. Venivano le famiglie dei nostri vicini Cencio e il compare
Ofelio, diversi cugini di papà, zio Elio, zio Miretto, zio Antonio il
palettone, e un po’ di “opere” (contadini braccianti) che partecipavano
<giusto perché si tu, Giova’>.
Il mattino, appena all’alba, si presentavano tutti a casa e si procedeva alla vestizione:
la tenuta di lavoro consisteva in abito personale comodo e una grande
tasca ottenuta legando alla cinta le due estremità basse di una
parannanzi. Questa legatura era mobile perché, scioltala, permetteva lo
svuotamento del suo contenuto in grosse ceste, dalle quali poi si
riempivano le balle. Venivano approntati anche dei lunghi bastoni ad
uncino per tirare in basso i rami più lunghi ed un paio di scale in
legno per le piante più “rognose”.
Naturalmente i lavori più
complessi, uncinare e tirare i rami o salire sulla scala, spettavano di
diritto agli uomini. Le donne e i giovani facevano la bassa manovalanza.
Papà mi fece notare, però, più volte, come le “signore” in questo lavoro fossero molto più svelte e produttive dei maschietti.
Io e le mie sorelle, Marco era piccolino, cercavamo di imitare i
“lavoratori” ma il più delle volte eravamo loro solo di intralcio, così
venivamo incaricati di mansioni più semplici come mantenere costante la
riserva di acqua per dissetarci e qualche bottiglia di vino per gli
uomini più “rudi”.
Si andava avanti così, senza interruzioni del
lavoro ma accompagnando lo stesso con canti di gruppo o con sfottò, fino
all’ora di pranzo.
Poi l’intervallo pranzo.
Nonostante tutti
fossero forniti dell’occorrente per il proprio pasto mamma preparava
sempre un “filo de pasta calda calda” col sugo di “regagli” di pollo.
Per tavolo, oltre a quello in cemento delle “cerquette”, papà preparava
due palanche poggiate su “bigonzi” rovesciati e altre due poggiate su
cortine di tufo come sedili.
Un’oretta e mezza circa per pranzare ma
anche per scherzare, raccontare aneddoti, cantare, e se c’era zio
Antonio con la fisarmonica ascoltare un po’ di musica, qualcuno
approfittava per un breve sonnellino.
E si riprendeva fino al calar
del sole. Di solito finivamo tutto in giornata, ma comunque per ultime
venivano lasciate le piante del “fonnetto” davanti casa che, più piccole
e comode erano “lavorate” il giorno dopo, “co’mpard’ora” da Carolina e
la comare Valda.
Nell’arco di un paio di giorni Cencio o il compare
Ofelio passavano col carretto, caricavano tutto e lo portavano a
“Giovanni il caciotto” che aveva dei magazzini per la raccolta e una
prima lavorazione davanti alla Chiesa Parrocchiale.
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